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RITORNO A SEOUL
24 Ottobre 2023 @ 18:30 - 23:00
PRIME
RITORNO A SEOUL
martedì 24 ottobre ore 18:30 e ore 21:00
di Juan Davi Chou
Francia, Cambogia, 2022 – 117 min
Drammatico
titolo originale: Retour À Séoul
Premio Un Certain Regard 2022.
ATTENZIONE!
L’accesso alla proiezione è consentito solo ai tesserati.
Si prega di arrivare almeno mezz’ora prima dell’inizio dello spettacolo in occasione della sottoscrizione della tessera.
L’accesso al parcheggio del Teatro è esclusivamente da via Don Bosco.
come partecipare
Le proiezioni sono riservate ai soci. Per partecipare basta sottoscrivere la tessera al costo di 10€. Le proiezioni richiedono un contributo minimo di 5€ per l’ingresso.
Recensione
Significativamente, il titolo internazionale del secondo lungometraggio di finzione di Davy Chou sarebbe dovuto essere All The People I’ll Never Be, un titolo bellissimo, perfettamente aderente al problema di Freddie con la propria identità, alla relazione con il proprio sradicamento, al confronto costante con l’altro, con la (presunta) felicità altrui, e la necessità di indossare una maschera scontrosa, altezzosa, ostile, reinventarsi in un contesto dove solo il suo aspetto esteriore, superficiale è conforme a quello di chi la circonda. Poi anche per l’inglese, e per l’italiano, si è scelto Return to Seoul, Ritorno a Seoul, evidenziando il ritorno della protagonista al proprio paese di nascita, la Corea; ma si sarebbe potuto intitolare anche Lost in Seoul, a giudicare dallo smarrimento, appena dissimulato, della ragazza, e in riferimento a tutto ciò che non viene detto, non viene compreso, rimane incastrato nelle pieghe di un uso del francese, che per gli interlocutori coreani diventa inevitabilmente meccanico e farraginoso.
Davy Chou, nato in Francia in una famiglia cambogiana che ha fatto la storia del cinema del proprio paese prima dell’avvento di Pol Pot, ha già percorso, a suo modo, un lavoro di ricostruzione dell’identità, della propria personale e famigliare, ma soprattutto di quella collettiva, con il magnifico Le Sommeil est d’or, la storia in absentia di una cinematografia perduta per sempre. E nel farlo assumeva un ruolo fondamentale il paratesto, quel che rimane delle affiches, qualche frammento di film, qualche foto, le sale, gli spazi trasformati in altro e soprattutto le canzoni, con il loro potere evocativo incredibile. Qui, nella primissima scena, Freddie sente la canzone anni ‘60 che la ragazza alla reception del B&B sta ascoltando; la sente nel senso che sembra per un attimo smuoverla sotto la superficie, altrimenti imperturbabile se non strafottente.
Altro livello di scostamento dagli stereotipi del genere, gli spazi. Se, come dicevamo, in Le sommeil est d’or gli spazi, modificati, sfigurati dalla Storia diventavano protagonisti di un’assenza, in Ritorno a Seoul, che procede per ellissi temporali, gli spazi urbani continuano a essere correlato, umido e notturno in molti casi, della solitudine di Freddie, che almeno due volte si risveglia accasciata in un vicolo senza avere idea di come ci sia finita; è altrettanto difficile ricostruire gli spostamenti verso Jeonju e in campagna, per incontrare il padre biologico e la sua famiglia, sempre filmati sul volto della giovane e di chi l’accompagna. A maggior ragione funzionerà, nel finale, la scelta di chiudere nella campagna (rumena), su un’altipiano, in completa assenza di riferimenti geografici e linguistici, giusto un hotel in mezzo al nulla, con un pianoforte.
Dicevamo già prima del ruolo della musica, anche della prassi esecutiva: Freddie è (stata) musicista. Tra le prime scene, Freddie fa ai propri ospiti una tirata sul sight reading, la lettura a prima vista di una partitura musicale; vuole subito dare una lezione di come ci si butta corpo a corpo in una situazione incognita così come il buon musicista riesce a fare con uno spartito che vede per la prima volta, e forse è qualcosa di molto europeo, imprevedibile per un certo tipo di mentalità, di rigidità: la ragazza si versa da sola del soju, “perché non si fa?” domanda ai due convitati, “perché è come se non ci si prendesse cura di te” le rispondono, e lei, che è abituata a prendersi cura di sé da sola, tracanna il bicchiere; dopodiché continua il sight reading della situazione, e contro ogni regola, si alza dal tavolo, si siede con un altro gruppo di giovani, invita gli amici con cui era arrivata, se ne aggiungono altri, e fa decadere temporaneamente il costume orientale che prevede l’esclusività di relazione nelle uscite con amici. Forse, sembra dirci Chou, anche noi spettatori dobbiamo affrontare il suo personaggio come un esercizio di sight reading, capire progressivamente quali accenti, quali sfumature, si nascondono dietro a ogni nota della sua partitura; e forse tra le righe ci sta dicendo che quello è l’esercizio che lo spettatore dovrebbe sempre cercare di fare.
Ma, soprattutto, per Freddie, i nodi vengono al pettine proprio in un esercizio di sight reading, questa volta nell’accezione comune, autenticamente musicale: sul pianoforte, nell’hotel rumeno che dicevamo, qualcuno ha lasciato lo spartito di “Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ” di Bach, e il suonare a prima vista, incerto della giovane, rotto da una situazione emotiva solo apparentemente sotto controllo, si carica del significato stesso del brano, di quello armonico più ancora che di quello testuale. Musica e conflitto interiore, finalmente, mélos e drama.